Uscito nelle sale italiane come evento speciale il 27, 28 e 29 Marzo, il film d’animazione “La tartaruga rossa” dell’olandese Michaël Dudok de Wit riporta al centro del dibattito culturale temi esistenziali ed ambientali, che rappresentano tuttavia solo alcuni dei molteplici aspetti di un film mistico e complesso che riflette sul senso stesso della Vita.
L’Uomo e la Natura
Il tutto ha inizio con una tempesta. Un uomo riemerge affannosamente dai flutti marini nello sforzo di appigliarsi alla nave da cui è stato sbalzato. Le condizioni climatiche sono inclementi, e così, mano a mano che gli istanti passano, le onde si fanno più imponenti (come ne La grande onda di Kanagawa) e il naufrago, precariamente aggrappato, viene trascinato via.
L’uomo, di cui non sapremo né nome né provenienza, si risveglia su un’isola dominata da una distesa di bambù alti metri, e da insetti rumoreggianti che fanno da sottofondo alla esplorazione dell’isolotto. Il territorio è selvaggio; non c’è traccia di vita umana. In questa cornice naturale, l’incontro fra Uomo e Natura è di scontro, con la seconda che prevale sul primo dimostrandone l’inettitudine di opporsi alle sue forze. Il protagonista, infatti, dopo essere stato sballottato in mare, si ritrova nell’incapacità di adoperarsi efficacemente per modificare la propria condizione: non può abbandonare l’isola e di questo si sconforta. La Natura dimostra di seguire il proprio corso, i suoi meccanismi di funzionamento senza, con ciò, considerare gli effetti che essi producono sull’uomo. Quest’ultimo si trova pertanto in uno stato di profonda insoddisfazione perché non solo non può tornare nel mondo da cui proviene ma, allo stesso tempo, avverte l’avversione dell’ambiente. Il paesaggio, per quanto ameno, appare simile ad una enorme gabbia in cui l’uomo è intrappolato, lontano dal progresso cui appartiene. L’unico appiglio che ha di fronte a questa ostilità è il proprio ingegno, grazie al quale si mette all’opera.
Il protagonista, da moderno Robinson Crusoe, quale esemplare del prototipo d’uomo del Settecento, razionale e intraprendente, ricorrendo alla forza della propria ragione e sentendosi in grado di poter piegare gli ostacoli naturali, costruisce una zattera con la quale, successivamente, s’imbarca nel tentativo di tornare alla civiltà. Tuttavia, un colpo improvviso, che proviene dal profondo, manda in frantumi l’imbarcazione. Tornato sull’isola, tenterà una seconda e una terza volta, costruendo nuove zattere, l’una e più grande e robusta dell’altra, ma ogni tentativo fallirà. Una riprova quindi di chi dimostra di affrontare il proprio stato con i parametri del mondo esterno, quelli della ragione, i quali però si rivelano inadatti a soccorrere il naufrago. Egli, raziocinante, ritiene che costruire una zattera più estesa ad ogni nuova prova possa essere sufficiente per assicurarsi il ritorno. Ma così non è. Difatti, ciò non impedisce che ogni volta le chiatte vadano distrutte per opera di una forza misteriosa e inspiegabile ai suoi occhi, e non fa sì che la permanenza sull’isola abbia termine, placando la sua insoddisfazione. Il protagonista dimostra in tal modo di non essere in grado di abbandonare l’assetto mentale razionale che la società gli ha trasfuso; dà atto di come la ragione prevalga su tutto e di come egli sia nel costante sforzo di guidare la propria sorte. Questo impegno è, in ogni caso, ostacolato da una Natura che si contrappone e perdipiù pare incurante, in quanto vuole solo vanificare le fatiche dell’uomo.
Questa avversione trova rappresentazione nella tartaruga rossa che è la causa delle distruzioni delle zattere. Tant’è vero che si abbatte, con la sua testuggine, sulle imbarcazioni senza alcun apparente motivo: prova di non avere intenzione né di uccidere l’uomo né di danneggiarlo, bensì semplicemente di impedirne l’abbandono dell’isolotto. Essa dunque incarna l’opposizione all’uomo delle forze naturali, anche se prima era apparsa come segno di vita e libertà (da intendersi come allontanamento), avendo il naufrago maturato il desiderio di lasciare l’isola proprio assistendo alla schiusura di uova che liberano innumerevoli tartarughine che si dirigono verso il mare. Questi, a ogni modo, non coglie l’intento benevolo con cui l’animale opera, e perciò, tornato sulla terraferma, e avendola vista sulla spiaggia, le si scaglia contro ribaltandola e lasciandola morire al sole cocente. Ed è qui che il film realizza uno scarto passando da un ambientazione naturalistica ad una dominata dal senso di irrealtà e fantasia.
L’uomo e la donna
L’atto irrazionale di rabbia che muove l’uomo ad uccidere la tartaruga ne innesca il dinamismo. Eliminato infatti l’ostacolo al proprio intento, può tranquillamente rimettersi a costruire una nuova zattera, sapendo che questa volta niente si frapporrà fra lui e il ritorno. Ma quando sogna la tartaruga ascendere al cielo lasciandolo sulla spiaggia mentre tenta inutilmente di raggiungerla, tutto d’un tratto, l’animale appare agli occhi del naufrago quale unica via per abbandonare “quel luogo” (non solo fisico, anche mentale) e, conseguentemente, placare il sentimento di inquietudine che l’attanaglia. Il desiderio di riabbracciare la civiltà si intensifica ancora di più.
D’improvviso, il guscio del rettile si spezza e, nella più piena meraviglia, al suo interno compare, al posto della tartaruga, una donna dai lunghi capelli ricci. La novella Venere (dall’eco botticelliana) non dà cenno di vita; è immobile e sprofondata in un profondo sonno da cui non pare svegliarsi. Si rianimerà solo dopo, durante un temporale, al tocco benefico della pioggia. La presenza di un altro essere umano sull’isola dà nuovo slancio al protagonista: la possibilità d’instaurare un rapporto con un suo simile, e quindi la speranza di ricostruire un’organizzazione sociale simile a quella verosimilmente lasciata, lo spinge a muoversi verso la donna, cercandone il contatto. Così matura la scelta di rimanere sull’isola con lei. E come ella, una volta ri-nata, abbandona al mare la testuggine in cui si è manifestata, così l’uomo decide di lasciare alla corrente la zattera che aveva cominciato a costruire.
La testuggine e la zattera abbandonate al mare divengono simbolo dell’emancipazione dell’essere umano dalla paura, in quanto la prima dà protezione, e dall’ansia di ritorno, poiché la seconda implica l’idea di salvezza. Senza comportare comunque il venir meno del desiderio di riconquista (o ricostruzione) della civiltà, che perdura nel protagonista. All’istinto di sopravvivenza si sostituisce quindi l’istinto alla vita, e cioè la presa di coscienza del senso di un’esistenza nel contingente. Ma l’uomo è ancora soggetto agli schemi sociali, retaggio del suo passato, perché alla donna si avvicina palesando le convenzioni del mondo moderno, quale il riserbo iniziale. Ciò nonostante, fra i due lentamente nasce un legame silenzioso che fa trasparire un sentimento d’amore fondato su una comunione fisica, spontanea, in cui le attività che più attengono alla corporeità (come la ricerca e lo sguscio di cozze per nutrirsi) sono, nel mutismo dei due personaggi, modalità di comunicazione. Una condivisione, questa, che si realizza pienamente nella nascita di un figlio.
L’uomo e il vissuto
L’unione con la donna e la nascita del piccolo sembrano aver fatto raggiungere all’uomo la serenità tanto agognata, tanto da far sembrare che egli abbia accantonato il desiderio di abbandonare l’isola. Eppure non è così. Il rimpianto del mondo infatti persiste e lo fa nella figura del figlio, assurgendo quest’ultimo a proiezione del vissuto del padre. Del genitore appunto riprende la curiosità nella esplorazione dell’isola e diviene protagonista di una serie di situazioni dal primo già vissute, come la caduta nell’insenatura, il ritrovamento di un oggetto proveniente dal mare (la botte per l’uomo e la bottiglia per il bambino), l’incontro con la tartaruga, l’essere trascinati da forti correnti d’acqua (la tempesta prima e lo tsunami poi). Eppure, in ogni occasione, il figlio si pone come se avesse un retroterra esperienziale che gli consente di affrontare gli ostacoli sapendo come superarli, avendoli già conosciuti. In questo modo, è sufficiente un gesto indicativo della madre per uscire dall’insenatura in cui sarebbe altrimenti rimasto intrappolato; parimenti non ha da temere nel trovarsi di fronte la tartaruga, come a conoscerne l’inoffensività.
Il figlio dunque rappresenta del naufrago l’esistenza passata e, contemporaneamente, l’aspirazione mai venuta meno, di tornare alla civiltà. Così testimoniano i disegni dei genitori sulla sabbia, i quali ripercorrono i loro passati: se l’uomo mostra al bimbo quanto esiste fuori dal loro mondo (altri uomini ed animali come elefanti), svelando il ricordo di un mondo che non è, la donna disegna solo una tartaruga, come se la vita di lei (prima tartaruga) fosse in tutto ciò racchiusa. Il bambino è con questo associato ai vissuti dei genitori, divenendo destinatario delle loro storie rispetto alle quali svolgerà una funzione purificatrice. Perciò non solo si ripercorre quanto il naufrago ha già attraversato, ma si pongono altresì i termini per una associazione della figura del figlio a quella della tartaruga. Il primo, in sostanza, come la tartaruga, diviene emblema dell’anelito al ritorno e a ciò che ad esso segue, ossia la civiltà.
L’interpretazione è suffragata da due momenti del film. Nel primo, la madre, con in braccio il figlio ormai addormentato, si volta al mare mentre un quarto di luna campeggia sull’orizzonte e lo contempla: questo simboleggia quel desiderio inappagato del naufrago di ricongiungimento con il passato; nel secondo, il figlio raccoglie dal mare una bottiglia, da cui contempla la distesa marina che si stende dinnanzi a lui. E non è affatto un caso che, solo dopo lo tsunami, che parrebbe aver cancellato il precedente assetto di vita della famiglia, proprio ritrovando per caso la bottiglia egli comincia a struggersi, maturando la consapevolezza di dover abbandonare l’isola. La brama di “tornare” emerge, e così le onde del mare, da distesa senza confini, cominciano ad apparirgli come delle barriere su cui arrampicarsi e dalle quali osservare l’orizzonte che lo attende, e verso il quale dirigersi con sempre maggiore impazienza. Il giovane, per questo motivo, abbandonerà l’isola in compagnia di tre tartarughe, come se dovessero scortarlo (nello stesso modo in cui la tartaruga rossa dimostrerà di fare con il padre) verso la piena di consapevolezza di sé.
Con la partenza, scritta sin dal principio, del figlio, l’uomo si libera definitivamente dei ricordi nostalgici ed accoglie incondizionatamente la propria nuova vita sull’isola. Lasciandosi in questo modo alle spalle l’aspirazione al mondo da cui proviene, che sino a quel momento ne aveva vivificato la speranza.
L’uomo e la vita
Il naufrago si trova di conseguenza in uno stato di piena accettazione del destino che per lui si profila; non intende più avversarlo per disegnarne il corso, come non ha più intenzione di modificare la propria permanenza sull’isola. Ha compreso che non può abbandonare la sua nuova terra e che quindi solo accogliendo quanto gli è stato offerto dalla vita, può maturare un’unione totale con la Natura, superandone le avversità: se prima le aveva voltato le spalle, anche inconsapevolmente, ora è pronto ad abbracciarla, al pari della compagna di una vita all’atto del coricarsi. Le sovrastrutture della società sembrano crollare: l’uomo può finalmente permettersi un bagno nella nudità e può sostituire ad uno sguardo di ricerca, in cui prevalgono concitazione ed ansia di attività, la serena e placida contemplazione del mondo. Si è definitivamente emancipato dagli schemi sociali, dalle rielaborazioni dei sentimenti, è in grado di coglierli nella loro purezza ed autenticità, quali si manifestano nella propria amata o in un lento ballato in riva al mare. Ha riconquistato la primigenia libertà e, scacciata l’apprensione, la quiete esistenziale.
Il naufrago, da peregrino viaggiatore, sembra finalmente aver raggiunto l’approdo della vita, il significato più profondo dell’amore, amore come unione degli spiriti e come anelito alla vita: non alla mera sopravvivenza. Lo stato dell’essere umano da transeunte si fa pertanto come sospeso nell’infinito, verso la realtà delle idee. Il senso dell’evoluzione del protagonista è così tutto condensato nell’ultima scena: steso sulla spiaggia, rivolge gli occhi alla luna piena che risalta sull’orizzonte. Lo sguardo si fa assorto. L’uomo infine spira: ha appreso il senso della propria esistenza. La luna da punto dell’orizzonte cui tendere, apparentemente irraggiungibile, diviene punto d’attracco della mente del protagonista, luogo di comunione di affetto e di vissuto. Un bagaglio esperienziale ormai pieno, proprio come la luna, sciolto dal desiderio di un qualcosa di inarrivabile, e cioè un mondo che non v’è più.
L’uomo e la rinascita
Poco dopo la morte del naufrago la donna si sveglia e, nell’atto di accarezzargli il palmo della mano, si ritrasforma nella tartaruga rossa da cui è sorta, per poi dirigersi verso il mare da cui proviene. La tartaruga ha difatti assolto la sua funzione, ha trasformato l’uomo facendogli sperimentare e comprendere la genuinità dei sentimenti amoroso e filiale. L’opposizione alla sua partenza era da ciò dettata: se egli avesse fatto ritorno al mondo, non avrebbe potuto cambiare il proprio modo di pensare ed esperire la realtà. La tartaruga è pertanto intervenuta, ma a fronte dell’incapacità del naufrago di coglierne i segnali di aiuto, s’è dovuta fare donna come unico modo per comunicare e garantirgli tale consapevolezza. Ossia la presa d’atto che le emozioni possono essere vissute nel loro più autentico significato solo accettando il proprio destino, adoperandosi per cogliere nella vita medesima la fonte di una rinascita spirituale, abbandonando gli incessanti sforzi di modificarla per farla aderire alla propria volontà. Uno sguardo nuovo, non più corrotto, che vede l’uomo afferrare il corso della sua storia e non tentare di controllarlo, fare del proprio vissuto strumento di emersione dagli affanni e travagli della vita.
L’evoluzione del naufrago (che dal punto di vista della vita tale più non è) abbatte totalmente la propria forma mentis razionale, per accoglierne una nuova: quella di chi si pone nei confronti delle vicende senza preconcetti, in uno stato di innocenza conoscitiva, dove ogni esperienza, per quanto negativa, è colta come mezzo di crescita spirituale. E forse, in fin dei conti, tutta la vicenda non è stato altro che frutto dell’immaginazione del protagonista, un sogno da lui “vissuto”, una riflessione sulla sua esistenza, infine raccolta per ciò che è stata in grado di offrire.
di Luca Zammito con Gianluca Stramazzo
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