Cultura Musica

Viaggio nella vita e nella musica di John Fahey

Colto sperimentatore, sofferente e appassionato: questo è il ritratto di uno dei più grandi e meno noti chitarristi del secolo scorso. Nato nel 1939 a Washington D.C., seppe attingere a svariati generi musicali del suo Paese e del suo tempo, dando vita a una musica unica e dalla straordinaria potenza espressiva.

Morì nel 2001, a soli sessantuno anni, in seguito a delle complicazioni per un intervento al cuore. Da quando aveva iniziato a viaggiare per i concerti aveva avuto problemi a gestire il sonno e tentò di risolverli usando diversi tipi di sonniferi, ma non potendo bere alcool mentre assumeva queste sostanze decise di passare alla Coca Cola; ne bevve una quantità tale che gli causò un infarto. D’altronde, sarebbe inopportuno definire John Fahey un tipo moderato o sereno; anzi, coloro che lo conobbero videro in lui una spiccata tendenza verso l’autodistruzione. In diverse foto, Fahey è ritratto sdraiato in qualche stanza di un motel sperduto nel nulla, circondato da dischi, buste di plastica, scatole, cenere di sigarette e molti barattoli di pillole posati sul comodino accanto al letto, mentre ancora vestito cerca di riposarsi.

I giovani chitarristi cresciuti ascoltando la sua musica varia ed eterogenea, spesso si recavano in visita da questo vecchio maestro sconosciuto al grande pubblico, che trascinatosi in qualche luogo remoto alla ricerca di una modesta serenità e solitudine, aveva fatto perdere le tracce dietro di sé. Essi lo ricordano in pose pittoresche. Dean Blackwood, fondatore della Revenant Records, era andato alla ricerca di Fahey con suo fratello. Quando finalmente lo trovarono e bussarono alla sua porta, Fahey apparve completamente nudo, con delle monetine appiccicate dal sudore sul petto e sulla schiena, che lentamente iniziarono a staccarsi e a cadere sul pavimento.

Negli ultimi anni le sue giornate passavano avvolte in un velo di apatia nei confronti di ciò che lo circondava. Preferiva rimanersene a casa con qualche raro disco comprato in un negozio dell’usato ad ascoltare musica e a cercare nuovi modi d’espressione, piuttosto che avere a che fare con qualche produttore musicale che gli diceva di fare questo o quello per rendere la sua musica più vendibile. Spesso Fahey raccontò della frustrazione passata durante le sedute di registrazione, e di quando tornando a casa sentiva la necessità di sfogarsi facendo uscire dalla chitarra rumori di vario tipo. Inoltre, in quegli ultimi anni aveva incominciato anche a dipingere, con tecniche particolari proprie dell’arte contemporanea, senza rinunciare a quei tratti provocatori che contraddistinguono anche la sua musica. Questa inquietudine che lo porta a sperimentare nuove forme artistiche è parte integrante del suo stile di vita dissoluto e caotico, che lo conduce a cercare serenità in luoghi isolati e remoti, tra boschi e fiumi, ma senza mai stabilirsi definitivamente in uno di essi.

Le origini di una musica tormentata

Furono probabilmente le sue esperienze traumatiche passate negli anni dell’infanzia a generare una condizione di vita simile. Quando era ancora un bambino Fahey si trasferì a vivere con la famiglia nella periferia di Washington, circondata da una fitta vegetazione che cresceva rigogliosa tra le numerose villette, la quale costituì un paesaggio costante nella sua musica. Lì a quattordici anni iniziò a suonare la chitarra dopo aver abbandonato il clarinetto che la scuola lo costringeva a suonare. Durante il pomeriggio Fahey andava a casa di un certo Frederick, un uomo stralunato che possedeva migliaia di dischi bluegrass, entusiasta per la musica e per il suo nuovo amico. Insieme passavano ore a suonare e soprattutto a registrare le prime prove artistiche di Fahey, le quali si trovano ancora conservate nella collezione di Frederick.

Seppure la vita di Fahey possa sembrare serena, negli anni successivi iniziarono a manifestarsi i primi segni di una sofferenza e di una rabbia rimasta troppo a lungo seppellita. Iniziò a bere e a mischiare medicinali che potevano essere comprati solo grazie ad una prescrizione medica e si presentava ai concerti in un tale stato di semi-incoscienza che il giorno successivo non riusciva a ricordare nemmeno cosa avesse suonato. Giunto ad uno stato mentale eccessivamente confusionale, anche per un tipo come lui, Fahey prese la decisione di entrare in analisi. Durante la psicoterapia riemerse il trauma di quando suo padre abusava sessualmente di lui. Questa esperienza segnò profondamente la sua musica, che divenne un modo per esprimere sentimenti come la rabbia, la violenza, il rancore, che altrimenti sarebbero rimasti a rodere profondamente l’animo di questo musicista fino a portarlo alla follia, come affermò egli stesso in numerose interviste.

Il rapporto che Fahey ebbe con la chitarra riflette chiaramente i sentimenti che lo portarono ad avvicinarsi alla musica. Solitamente i chitarristi hanno un rapporto fanatico con il loro strumento, e per trovare il suono che preferiscono vanno alla ricerca di modelli di chitarre particolari o molto rare, cambiandole ad ogni concerto e a volte ad ogni canzone. Tutto ciò non avvenne in Fahey, il quale credeva che la buona musica uscisse dalle mani del chitarrista e non dal suo strumento. Ovviamente ciò non significa che lui suonasse con chitarre sgangherate ma piuttosto che non le cambiasse in continuazione. In questo modo la chitarra diventava semplicemente un mezzo sottoposto ai bisogni del musicista, e veniva trattata come un semplice oggetto piuttosto che come una reliquia. In effetti Fahey aveva l’abitudine di utilizzare la cassa armonica della chitarra come posacenere per spegnere le sigarette. Così Fahey suonava con la stessa rabbia che generava la sua musica. A volte le corde venivano tirate con tale decisione da creare un suono pieno e orchestrale e altre volte la chitarra veniva colpita quasi come se egli tentasse di tirare fuori da quelle sei corde tutta la forza di un sentimento che nella quotidianità rimane inesprimibile.

Può essere interessante, dal punto di vista psicologico, confrontare il rapporto di Fahey con la sua chitarra rispetto al rapporto che egli aveva con se stesso. Fahey trascurava la sua salute e per lunghi periodi conduceva una vita quasi precaria. In maniera simile veniva trattata la chitarra, gettata in macchina come se fosse un oggetto qualsiasi o lasciata sdraiata sul pavimento della stanza come una cicca di sigaretta. Tutto ciò mostra come egli provasse un certo disprezzo nei propri confronti e quindi verso lo strumento che rivelava la sua interiorità; come se la chitarra fosse un fastidio al quale tuttavia non poteva rinunciare. Questo rapporto di risentimento e rabbia che egli aveva con sé e il suo strumento potrebbe essere causato dal senso di colpa e d’impotenza originati dall’esperienza traumatica avuta con il padre.

La scoperta del Blues e la musica concreta

Il modo particolarmente espressivo di suonare di Fahey è dovuto anche all’influenza dei chitarristi blues americani degli anni ’30. Musicisti come John Hurt, Bukka White, Skip James, segnarono profondamente l’esperienza musicale di Fahey. Inizialmente egli provava una certa diffidenza verso la musica dei neri, poiché in quegli anni il razzismo, ancora forte e radicato nella cultura americana, non consentiva a quel genere musicale di espandersi in tutto il mondo come accadde in seguito. La diffidenza verso i neri diffusa negli Stati Uniti non poté non coinvolgere anche Fahey durante l’adolescenza.

Egli raccontò la sua reazione quando ascoltò per la prima volta un disco di Charlie Patton, un bluesman per il quale Fahey ebbe una profonda ammirazione negli anni successivi. Un giorno quel suo amico Frederick, al quale non mancavano di certo dischi blues, mise sul giradischi un pezzo di Charlie Patton. Quando il disco iniziò a girare Fahey ebbe un’immediata reazione di disgusto dal timbro di voce di quel cantante sconosciuto, e andò via indispettito dalla casa dell’amico. Ma nei giorni successivi la voce e la melodia di Patton non volevano abbandonarlo e perciò decise di tornare a casa di Frederick per riascoltare il disco e capire come mai fosse così sedotto da quella musica. Da quel momento iniziò la sua passione per il blues, che rimarrà un sottofondo costante nei suoi componimenti, anche se a volte in modo poco evidente. Alcuni addirittura diranno che a chi piace John Fahey probabilmente non piacerà il Delta blues.

In questi musicisti Fahey riconobbe gli stessi sentimenti che tentava di esprimere nella sua musica: la rabbia e la violenza con cui i neri suonavano la chitarra, riuscendo a renderla uno strumento ritmico e indipendente che non aveva bisogno di nessun altro accompagnamento, il canto malinconico e lamentoso con cui dichiaravano la loro solitudine e la loro condizione di emarginati, sono sentimenti che si trovano anche nella musica di Fahey. Inoltre la sua vita segregata e solitaria rende la condizione esistenziale di Fahey simile a quella dei bluesmen dei primi anni. Così egli sviluppò una profonda venerazione per questo genere musicale e dopo essersi trasferito a studiare in California intraprese con un suo amico un viaggio negli Stati del Sud alla ricerca dei dischi dispersi di questi musicisti. Bussavano alle porte delle case chiedendo se qualcuno stesse vendendo qualche vecchio disco, per comprarlo a pochi dollari, ma dovevano stare molto attenti, dice Fahey, a non lasciare intendere a quelle persone cosa stavano veramente cercando: a quei tempi, ancora verso gli anni ’50, mostrare familiarità verso i neri poteva provocare molti problemi in quelle zone. Ma nonostante le difficoltà Fahey e il suo amico riuscirono a trovare quello che cercavano tra i dischi ammuffiti negli scantinati.

Quando in seguito Fahey fondò la Takoma Records, una delle prime etichette discografiche indipendenti che utilizzò per produrre i propri dischi, egli si mise alla ricerca di quei vecchi musicisti che potessero essere ancora in vita. Riuscì così a scovare molti dei suoi idoli. Alcuni di essi erano ridotti alla fame, altri ricoverati in ospedale in fin di vita, come Skip James, che Fahey incontrò pochi mesi prima della sua morte. Nonostante ciò, riuscì a pubblicare diversi dischi di questi bluesmen, diventando uno dei primi a diffondere la musica di questi sconosciuti.

Tuttavia il blues non è l’unico genere musicale al quale Fahey si ispirò. Un musicista come lui, che tentava costantemente di cercare nuove sonorità dopo ogni album, non poteva certamente limitarsi ad imitare i suoi idoli. Il suo scopo era quello di esprimere attraverso la musica la condizione esistenziale in cui si trovava, tentando di seguirne i passi nel corso del tempo. Così, verso la fine della sua carriera, negli anni ’90, Fahey fece i conti anche con quei generi musicali che gli erano più estranei. Suonò e collaborò con alcuni gruppi underground come i Sonic Youth e incise un album con il gruppo post-rock Cul de Sac. Con questi ultimi adattò alcuni dei suoi pezzi più celebri al rock elettronico del gruppo, creando una simmetria tra generi apparentemente incompatibili. Inoltre negli ultimi anni Fahey decise di suonare la chitarra elettrica in alcuni concerti, abbandonando temporaneamente quella acustica che fino ad allora lo aveva accompagnato in tutti i suoi dischi.

Anche in questo caso egli non si limitò ad usare la chitarra elettrica in modo convenzionale; alle volte suonò le sue canzoni tradizionali ma con delle sonorità diverse per via dell’elettrificazione, mentre in altre occasioni si abbandonò all’improvvisazione più libera, modificando il suono tramite numerosi effetti. I concerti che Fahey tenne in questi ultimi tempi spesso divennero paradossali. Parlava con il pubblico, divertendosi a fare freddure su questo strumento: diceva che suonare la chitarra elettrica era particolarmente rilassante, perché bastava pizzicare una corda, lasciare che i vari effetti la riprodussero infinitamente e aspettare. Così talvolta i concerti si facevano cabarettistici e ciò indisponeva gli organizzatori, che si aspettavano tutt’altro da John Fahey.

Evidentemente era un tipo a cui piaceva sorprendere, spesso in maniera poco piacevole, e sempre in modo da serbare la sua apatica provocazione verso il resto del mondo. Comunque sia, il suo tentativo più estremo di sperimentazione giunse nel momento in cui Fahey decise di avvicinarsi alle esperienze della musica concreta, ideata già nel 1948 dal francese Pierre Shaeffer. In breve, la musica concreta si basa sulla composizione di brani musicali tramite l’utilizzo di suoni “concreti”, cioè che non siano prodotti esclusivamente da strumenti musicali ma anche da ogni genere di oggetti che possano produrre un rumore; successivamente i suoni registrati possono essere modificati in modo da ampliarli, ridurli, alzarli e sovrapporli. L’obbiettivo della musica concreta era quello di abbandonare le concezioni astratte utilizzate nella musica, come l’armonia e il contrappunto. I primi tentativi di Fahey risalgono già ai primi album, nei quali tentò un collage di diversi suoni, brani e dialoghi, i quali vennero sovrapposti alle sue canzoni. Tuttavia solo più tardi raggiunse una profonda maturità nella musica concreta, che trova l’espressione più alta nel disco City of Refuge.

Le ultime sperimentazioni: la primitive guitar e la ricerca dell’autenticità

Sebbene Fahey abbia tentato nella sua carriera di sperimentare generi diversi, evitando di ripetersi da un album all’altro, la musica che lo rese più celebre e che riscosse maggiore ammirazione dagli altri musicisti fu quella che nacque dalle prime influenze avute nella periferia di Washington: dal blues, dal country, dai canti liturgici e dalla musica classica contemporanea. Fahey, riuscendo a fondere questi generi in modo assolutamente originale, impresse alla musica una nuova direzione – anche se per il momento poco seguita – tanto innovativa che i critici dovettero coniare una nuova espressione per definirla, e fu chiamata American primitive guitar, adattando alla sua musica il concetto di primitività allora utilizzato per definire l’arte figurativa. Questa definizione è probabilmente giustificata dal modo in cui Fahey suonava la chitarra. Egli rinunciò ad utilizzare il plettro e preferì la tecnica del finger style, dove vengono utilizzate le dita per pizzicare le corde e con la quale il chitarrista può fare a meno di ogni altro strumento d’accompagnamento, in quanto può utilizzare le corde basse per tenere il ritmo e quelle più alte per sviluppare la melodia. Tutto ciò dà alla sua musica quella tinta primitiva che giustamente gli riconobbero i critici.

Fahey suonava con la stessa rabbia che generava la sua musica, che divenne un modo per esprimere sentimenti che altrimenti lo avrebbero portato alla follia.

Anche se questo modo di suonare può essere facilmente ricondotto alla musica folk americana, la melodia che Fahey sviluppa sotto i passi lenti dei bassi alternati è estremamente innovativa. Nei suoi primi album questa particolare sonorità mantiene uno stretto legame con i canti liturgici e il blues, seguendo un andamento ritmico più schematico e semplice che rende le canzoni simili a ballate campestri. La melodia è intessuta di elementi musicali che esprimono gioia e serenità ma inserite in strutture ritmiche cicliche che creano un sottofondo di malinconica lentezza, successivamente rotte dall’affiorare di dissonanze che riescono a scomporre quel paesaggio di ingenua felicità costruita nei passaggi precedenti; quasi come se Fahey volesse mostrare la fragilità e l’instabilità dei sentimenti, contrapponendoli e alternandoli. Così, in questi primi dischi, la speranza, la gioia, la serenità sono posti al centro della composizione ma senza che essi riescano ad occultare una superficie sottostante di inquietudine e di rabbia, sempre pronta ad emergere con violenza per sconvolgere la superficie. Questa melodia sembra quasi ricordare un paesaggio naturale di ruscelli che scorrono rapidi scavalcando pietre ammuffite, e di alberi verdeggianti che lentamente si arrampicano su colline soleggiate, dove la fauna scorrazza in libertà priva di pericoli solo per essere sconvolta da un terremoto, una frana o un’inondazione e tornare solo dopo ad una rinnovata serenità.

Dopo aver registrato diversi album, Fahey attraversò un periodo di crisi: riflettendo a posteriori rinnegò tutta la sua musica prodotta fino ad allora, ritenendola falsa e disonesta, in quanto non rappresentava veramente i sentimenti che lui provava. Fahey criticava della sua musica soprattutto quegli elementi che più brillavano di felicità. Credeva infatti di aver creato un mondo idealizzato e spensierato in cui si costringeva a vivere, mentre i sentimenti che lui provava davvero erano radicalmente diversi. Per lui quella musica era il prodotto di quel perbenismo americano che permeava la società, inducendo gli individui ad una riflessione eccessivamente positiva sulla realtà circostante così da renderli incapaci di ascoltare la sofferenza, che veniva tenuta nascosta. Questa dura riflessione si concluse con un rifiuto totale verso il suo passato artistico ma nello stesso tempo lo portò a raggiungere nuovi orizzonti musicali.

L’album che potrebbe essere ritenuto il momento di svolta nella carriera musicale di John Fahey e che segna il passaggio dalla prima alla seconda produzione, è Fare Forward Voyagers. Questo disco si distingue nettamente dagli altri: contiene solo tre brani, che durano almeno quindici minuti l’uno, nei quali si perde quasi completamente la ciclicità della canzone e la regolarità del ritmo che caratterizzavano gli album precedenti. Sono pezzi che si confrontano più direttamente con la musica classica contemporanea, in particolare quella di Charles Ives, ricchi di dissonanze e variazioni ritmiche che liberano la musica da ogni schema predefinito, sembrando a volte una libera improvvisazione guidata dal flusso di coscienza. Nelle continue accelerazioni la chitarra viene suonata con maggior violenza, portando la melodia ad una tensione estrema, per poi frenare bruscamente e andare alla ricerca di note più gentili e delicate, suonate quasi singolarmente, in modo tale da lasciare l’ascoltatore in sospeso, come ad attendere la prossima cascata. Tra repentine accelerazioni e rallentamenti, tra tensione e calma, l’ascoltatore si ritrova sballottato da una parte all’altra, costretto a confondere sentimenti opposti, alternati rapidamente, che lo obbligano a provare anche le sensazioni più sgradevoli. In quest’album Fahey scompone quel mondo falso e idealizzato che credeva di aver costruito nella produzione precedente, riuscendo a fare di questa nuova musica il vero specchio della propria coscienza.

In questo artista la musica è sempre accompagnata da una riflessione sulla propria condizione esistenziale, sulle esperienze passate e sulle emozioni che in quel momento lo stanno avvolgendo, ed egli sente la necessità non solo di esprimere tutti i sentimenti contemporaneamente, seguendoli, in un certo senso, durante il loro mutare nel tempo, ma soprattutto di evitare che essi vengano corrotti dal mercato musicale. Fahey è uno di quei pochi artisti che non ha mai tentato di raggiungere la fama e il successo, due aspetti decisamente assenti dal suo ideale artistico, per mantenere sincera e originale la sua musica, senza scendere a compromessi con produttori musicali o etichette discografiche. Per realizzare i suoi scopi dovette addirittura creare una propria casa discografica, in quanto fin da giovane era consapevole che nessuno avrebbe voluto produrre la sua musica senza apportare modifiche sostanziali, e rinunciò a vivere negli agi per passare le notti tra una stanza di motel all’altra. Così Fahey rimase per lo più sconosciuto e non raggiunse un grande successo commerciale, ma ciò nonostante, senza fare troppo baccano e conducendo una vita solitaria e ai margini della società, segnò un passo fondamentale nella storia musicale riuscendo a far convergere nel blues e nel folk americano una molteplicità di generi diversi – con i quali tuttavia non si identificò mai completamente – e lasciò che fossero gli altri a sbrigare l’ingrato compito di etichettare la sua musica.

di Giacomo Vaccarella

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