Cultura Teatro

Forse era meglio Vasco

La produzione Argot colpisce ancora. “Volevamo essere gli U2 ma forse era meglio Vasco”, è la commedia in scena al teatro Argot di Trastevere fino al 21 Ottobre, scritta e diretta da Umberto Marino.

Lo spettacolo si presenta come il sequel di Volevamo essere gli U2, il che rende lo spettacolo interessante per un discorso di continuità, ma la domanda è spontanea: bisogna aver visto il primo per vedere questo spettacolo? La risposta è no, e questo è tutto merito di Umberto Marino che ha realizzato un testo indipendente seppur all’interno di una micro serie. Aver visto il primo sicuramente rende più accessibili i tanti ricordi che vengono citati dai personaggi, ma per uno spettatore che vede per la prima volta lo spettacolo sono solo ricordi di un gruppo di amici che si ritrova dopo tanto tempo, ed il fatto che i ricordi non siano centrali è un’ottima scelta drammaturgica.

La commedia tratta la rimpatriata di questo gruppo di amici che si erano persi di vista. Il motivo di questa rimpatriata è la morte di un membro del gruppo, Filippo. Una volta questi amici avevano formato una band musicale, così viene chiesto loro di suonare al funerale. Il problema è che non si vedono da 30 anni e nessuno di loro ha continuato a suonare. Hanno una notte soltanto per ritrovarsi e provare a suonare ancora una volta insieme. Questo è il fattore scatenante da cui si dipana la trama. Poi, per realizzare uno spettacolo che non dipendesse dalla prima parte, Volevamo essere gli U2, Marino ha realizzato un testo molto semplice e tradizionale: una commedia con oggetto “rimpatriata fra amici” durante la quale tutti, a turno, confessano il proprio segreto e si aprono in questa catarsi suscitata dallo stare dopo tanti anni con gli amici. È uno sviluppo drammaturgico molto ricorrente, serve a caricare di emozioni la commedia e far esprimere ai personaggi il loro io interiore. Nessuna critica a questo, è una scelta drammaturgica di tutto rispetto. L’importante è che funzioni. Effettivamente funziona, ma non sempre. Infatti, il tallone d’Achille di questo spettacolo sono proprio queste confessioni dei personaggi, il che è dovuto ad una serie di imprecisioni che danneggiano uno spettacolo meritevole.

Cosa danneggia questo spettacolo? In primo luogo le luci. È brutto dire che le luci rovinano uno spettacolo, perché molte volte sono l’elemento che nessuno vede, ma senza il quale non avviene quella immedesimazione. Sono l’elemento magico che è magico proprio perché nessuno lo vede. Bene, in questo spettacolo manca la luce, o forse ce n’è troppa. In televisione, come al cinema e non di meno al teatro, ci sono dei trucchi con i quali determinati momenti si caricano di pathos o rafforzano l’attenzione del pubblico: al teatro, non essendoci una macchina da presa ed un montaggio che possano attuare un focus su un determinato momento, le luci sono essenziali mezzi di trasmissione delle emozioni. In questo spettacolo Giuseppe Filipponio, light designer, sembra essere diventato Duccio della serie tv Boris. Perché dico questo? Perché lo spettacolo è sempre, costantemente, martellato da una luce dall’alto che illumina tutto indistintamente. Bello l’effetto dell’unica finestra di questa cantina dove si riunisce il gruppo, bello l’effetto corridoio fuori dalla porta, ma questo è merito della scenografia di cui si parlerà in seguito. La luce non cambia mai, è sempre “smarmellata” fissa. Questo può andare bene in tv, dove la macchina da presa può fare un primo piano ed è subito pathos, ma in teatro, se la luce non riscalda l’ambiente, non esprime emozioni, non segue il discorso, tutto diventa molto più piatto ed annulla ogni atmosfera che si potrebbe evocare. Così succede durante le confessioni di questo spettacolo. L’occhio si perde durante i monologhi, non c’è un vero momento di raccoglimento quando arrivano le notizie shock e questo danneggia moltissimo lo spettacolo. La “smarmellata”, inoltre, impedisce di definire un gioco cromatico allo spettacolo. Lo spettacolo non ha colore, non ha calore, quindi risulta apatico e poco espressivo. Il motivo per cui non ci si emoziona durante le confessioni è anche un problema drammaturgico. Non si sono dei carichi di tensione, ma le cose arrivano “a bomba”, senza aspettativa, senza suspense, fra una serie serrata di botta e risposta. Un grande peccato anche questo perché potrebbe funzionare molto meglio: è corretto tutto, ma non c’è un crescendo di tensione prima della confessione. I monologhi sembrano non essere l’argomento principale dello spettacolo, sembrano servire solo ad un fine drammaturgico per dare sostanza al testo.

Ottima la scenografia, molto bella, molto ricca e molto ben curata. Bella l’idea del televisore, oggetto scenico costante, e come è stata realizzata, bella la finestra e belli gli interni del corridoio. Lo spettatore vede bene tutta la stanza, molto realistica (motivo che potrebbe spiegare la luce fissa, ma comunque non giustifico questa scelta visti i risultati). L’unico difetto che porrei è la mancanza di carattere in questa stanza, nel senso che sembra un’accozzaglia di cose indistinte. Ok, è una cantina, ma è una cantina che prima era la sala prove di un gruppo di giovani che voleva cambiare il mondo ed adesso è la casa di uno, quindi perché non c’è nulla che mi dica questo? Cosa c’entra una tavola da surf, dei palloni da pallavolo, un pallone da basket. Io mi sarei aspettato dei poster, dei libri significativi di quello che avevano passato o cose che parlassero della vita del nuovo inquilino, invece niente. Vedendo la stanza non si capisce di chi sia. Peccato anche qui perché con più carattere anche la scenografia avrebbe avuto qualcosa d’aggiungere.

Ottimi i costumi, nulla da dire. Bello l’utilizzo degli strumenti dal vivo. Ottime le due linee comiche interpretate da Enrico Lo Verso e Alberto Molinari, due attori che portano in scena un’esilarante comicità. Per un momento la “smarmellata” viene interrotta, ed in quel momento la trovata per illuminare gli attori è geniale.

Una commedia semplice, divertente ed ottima per un pubblico che deve avvicinarsi al teatro. Ottima per passare una sera tranquilla e farsi due risate. Una commedia da 6,5/10 per passare una serata divertente.

di Lorenzo Bitetti


 

Volevamo essere gli U2 ma Forse era meglio Vasco è divertente, incalzante, brillante e talvolta addirittura toccante. I dialoghi così ben ritmati e scritti e la performance generale degli attori, però, cozza fortemente con l’eccessiva e straniante pedissequità di monologhi che sembrano usciti dalla penna di uno sceneggiatore di cent’anni fa, e pure fortemente scarso; le luci sono gestite come se fossimo sul set di Un Posto al sole, e quell’unico guizzo che a mala pena riusciamo a trattenerci dal rivelare è tanto bello, ben studiato e inaspettato da farci inveire contro la pigrizia di un light designer che pure dimostra di avere delle ottime idee. Il suono degli strumenti dal vivo è cristallino e vibrante, le tracce audio delle canzoni invece sembrano uscite da un cd di contrabbando venduto su una bancarella nei primi anni Duemila.

C’è un momento preciso, quando ormai si è usciti dalla sala, in cui ci si accorge che uno spettacolo così avrebbe potuto facilmente ridurti alle lacrime; invece, purtroppo, io e il buon Lorenzo ci siamo “solo” divertiti. Da vedere e possibilmente rivedere, ma con un latente fastidio da occasione sprecata.

di Davide Rubinetti

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