“La confessione”, di Alfredo Traversa e Marco Politi, diretto ed interpretato da Alfredo Traversa per una prima nazionale all’Off/Off Theatre.
Uno spettacolo forte, principalmente per la bravura di Alfredo Traversa che porta avanti questo monologo – questa confessione – con una recitazione salda, decisa. Bravo senza dubbio, capace di trasmettere tante emozioni e far sentire allo spettatore un qualcosa, che sia quel desiderio erotico nei confronti del corpo maschile o l’angoscia suscitata dal continuo reprimere le proprie pulsioni. Se fosse tutto nelle sue mani, lo spettacolo non peccherebbe, ma purtroppo c’è qualcosa che non va. Lo spettacolo è coinvolgente, ha una forza emozionale non da poco ma non travolge: si ferma ed è un peccato. Ma perché non riesce ad essere a tutti gli effetti un ottimo spettacolo?
La colpa non ricade sulle luci, che accompagnano il monologo in maniera ottima, con dei colori interessanti e che favoriscono passaggi da un luogo ad un altro. C’è da fare i complimenti ancora una volta ad Alfredo Traversa, che riesce a sistemarsi una struttura di luci ottima. Il costume, unico, è filologico rispetto al personaggio, non so quanto diegetico, ma sicuramente inserito nel contesto. Il vestito ritengo sia importante poiché permette l’unica azione che accompagna il racconto, cioè quella che il prete compie di vestirsi all’inizio e svestirsi alla fine. Su questa azione ritengo sia importante tornare in seguito. La scenografia comincia a presentare un difetto. È dichiaratamente essenziale, una stanza poco definita, pochi elementi ed un nero che domina la scena. I pochi oggetti presenti sono un tavolo, un piatto, un cucchiaio, una tazza, una sedia e una bacinella con l’acqua. Quello che stona in questa scenografia sono prima di tutto i poster religiosi attaccati al muro con lo scotch bianco; in una scenografia così essenziale quei poster sono la cosa più brutta e fuori luogo dello spettacolo. Il resto degli oggetti come il piatto, la posata e la tazza mi sembrano superflui, non trovo una loro funzionalità diegetica. Posso capire che è mattina e sta facendo forse colazione, ma in un monologo in cui l’attore si rivolge direttamente al pubblico, questa azione realistica quotidiana stona fin troppo. La bacinella con l’acqua serve a creare l’idea di sauna che ad un certo punto viene evocata; anche qui, il tutto è un po’ superfluo dato che la fantasia avrebbe potuto lavorare meglio. Ma posso capire e non mi dispiace troppo.
Il discorso sulla musica è un’ottima rampa di lancio per parlare della trama. La musica è ottima. È Bach, quindi nulla da dire, potente e molto evocativa. A sentirla ad alto volume con un’immagine in movimento, viva, davanti agli occhi capisci perché Bach sia Bach. Però, proprio perché la musica è così bella, ne senti la mancanza durante lo spettacolo. Ed è proprio questo quello che non va bene in questo spettacolo. L’attore, per quanto sia bravo, è solo, solo con la sua voce e questo da spettatore lo si avverte. Manca un supporto musicale per trattenere l’attenzione che si perde non per colpa dell’attore, ma inevitabilmente per colpa della forma del monologo. Forse l’attore avrebbe potuto variare tecnica recitativa per tenere viva l’attenzione, ma aveva un personaggio da mantenere e ha fatto la scelta di non tradire questo realismo. Però un monologo così rischia di diventare come una lezione a scuola, che per quanto possa essere interessante, prima o poi qualcosa la si perde. La musica si fa sentire all’inizio e alla fine; in mezzo si svolge la storia. Proprio in questo lasso di tempo si realizza l’azione con il vestito, che potrebbe ripercorrere la sua vicinanza e lontananza dal giuramento verso Dio. Infatti, lo spettacolo inizia con l’attore in mutande che sulle note di Bach si agita sul tavolo. Poi comincia a raccontare la sua vita e mentre parla del suo avvicinamento alla Chiesa comincia a vestirsi. È chiaro il messaggio, sta diventando prete. Poi è prete durante tutto lo spettacolo. Ad un certo punto va in sauna prima del gran finale, e quindi si spoglia per finire in mutande sulle note di Bach. Secondo la mia interpretazione, l’inizio è la fine, dove l’inizio e la fine rappresentano il suo atto impuro, la sua colpa, il suo allontanamento da Dio e il suo perdere quel ruolo rappresentato dalla veste. Ecco perché la musica apre e chiude, ecco spiegata l’azione del vestirsi per poi spogliarsi. Se questo era il messaggio, mi è piaciuto. Nel mezzo è presente la bottiglia d’alcol. Il simbolo che vi ho associato è la confusione del prete. L’alcol è famoso per la sua confusione, per accompagnare le persone lontano dalla ragione; ebbene, qui il mezzo dell’alcol rappresenta l’allontanamento che il prete compie da ciò che è giusto, da ciò che dice il suo giuramento.
E quindi ecco spiegato tutto, simbolismo, forza, ma soprattutto debolezza. Uno spettacolo che perde anche per il teatro. L’Off/Off Theatre è il peggior teatro che si possa fare. È falso in ogni suo punto. È un grande teatrino da quando si entra, con tante maschere che lo frequentano e tante scene di facciata. Un bar, un grande lusso, un pubblico ricco, ben vestito, alti prezzi per i biglietti, un enorme bagno e poi una sala classica, con platea e palco. Tutto questo va contro il nome “off”. L’off è quello che nessuno conosce, in periferia, a basso costo, tante volte sporco, nascosto, buio. Ed è bello così, è bello trovare l’oro in queste piccole caverne. Che poi non sono così brutte, anzi, a Roma si trovano tanti piccoli teatri che sono adorabili. L’off è innovazione, piccoli ambienti, avanguardia, associazioni culturali, budget bassi. L’Off/Off Theatre è una piccola Broadway per la gente ricca di Roma, con una programmazione che punta sullo scandalo, ma che molte volte dà l’impressione di deludere un amante di teatro. Non è il luogo adatto per una prima nazionale di uno spettacolo di questo genere. Anche il palco è inadatto. L’attore molte volte guarda gli spettatori ed in un teatro così strutturato, questo raccoglimento, questa atmosfera di confessione, si perde per la lontananza, per il dichiarato distacco fra scena e platea.

Il voto non può andare oltre il 7 per via delle difficoltà sopra descritte. Non adatto a tutti, teatro riservato ad un pubblico quasi selezionato, ma lo spettacolo vuole raccontare una storia forte, quindi chi sia disposto ad ascoltare questa confessione è ben accetto.
di Lorenzo Bitetti
La confessione di Alfredo Traversa è uno spettacolo strano: scritto e recitato benissimo, diretto sapientemente, con un protagonista con cui è facile empatizzare. Eppure, qualcosa non va. E non si tratta solo dei poster di Gesù Cristo attaccati storti alle pareti con dei pezzi di scotch gli uni sopra gli altri, nemmeno fossimo nella stanza di una ragazzina in fissa con gli One Direction. Si tratta di qualcosa di ben più fondamentale: la narrazione. Perché quello che il buon Lorenzo nella sua ottima disanima ha deciso (volutamente) di tralasciare è che il monologo – narrativamente parlando – si ferma dopo mezz’ora: il prete racconta le sue peripezie da omosessuale nei ranghi della Chiesa solo per trenta minuti, analizzando passo passo la sua situazione e affrontando i due temi centrali dello spettacolo (la sessualità e in particolare l’omosessualità dei preti); per i restanti 30 minuti di durata il protagonista non fa altro che continuare a esaminare i soliti temi, senza però aggiungere mai nulla di nuovo all’esplorazione. E così La confessione diventa ridondante, e smette di parlare allo spettatore, che rischia di uscire dalla sala quantomeno perplesso, visto che per trenta minuti non ha fatto altro che sentirsi ripetere le stesse cose ancora e ancora. E nessun simbolismo, nessun virtuosismo registico, di scrittura o di recitazione può essere in grado di riempire mezz’ora di vuoto. Uno spettacolo ben impacchettato insomma, e con molta carne al fuoco, che però dal fuoco viene tolta ben prima del previsto.
di Davide Rubinetti
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